La produzione globale di grano sta subendo un rallentamento significativo, influenzata dagli effetti del cambiamento climatico. Secondo un recente studio, in assenza dell’innalzamento delle temperature registrato negli ultimi decenni, le rese mondiali di grano sarebbero oggi superiori di circa il 10%. Questo impatto climatico negativo si estende anche ad altre colture: il mais avrebbe potuto offrire un rendimento maggiore del 4%, mentre per l’orzo si stima un potenziale aumento del 13%.
Tali perdite nelle rese agricole hanno conseguenze dirette sia sul prezzo delle materie prime che sulla stabilità alimentare su scala planetaria. Le previsioni per il 2025 indicano una disponibilità ridotta di scorte di grano, come riportato da Bloomberg, esponendo il mercato alla variabilità del clima nelle aree chiave di produzione. Gli Stati Uniti appaiono attualmente in una posizione favorevole, la migliore dal 2020, ma situazioni ben più critiche si registrano in Europa e Cina, dove la siccità rappresenta una sfida crescente per gli agricoltori.
Le stime per la prossima stagione parlano di una produzione che potrebbe fermarsi al 60% rispetto al picco raggiunto nel 2022. Tuttavia, questi dati potrebbero ulteriormente peggiorare se condizioni climatiche estreme, sempre più frequenti a causa del riscaldamento globale, dovessero colpire i principali produttori dell’emisfero settentrionale prima della raccolta prevista tra giugno e luglio.
Una recente indagine, apparsa sulla rivista scientifica Bloomberg, ha analizzato mezzo secolo di dati relativi al riscaldamento globale e ai fattori che incidono sulla produttività agricola. Nonostante i progressi tecnologici e l’impiego intensivo di fertilizzanti abbiano, in generale, favorito l’aumento della resa dei cereali, le condizioni climatiche avverse stanno esercitando una pressione crescente sulle colture.
Gli studiosi hanno preso in esame cinque coltivazioni fondamentali, tra cui grano, mais e orzo, rilevando che tre di esse hanno subito impatti negativi a causa delle alte temperature e della scarsità di acqua. L’indagine sottolinea che in diverse aree del pianeta si è verificato un rapido incremento termico: in quasi metà delle zone destinate alle colture estive, e in circa un terzo di quelle riservate a raccolti invernali, le temperature sono aumentate a un ritmo doppio rispetto alla media globale.
Tra i fattori più rilevanti emersi dalla ricerca c’è il cosiddetto "deficit di pressione di vapore" (VPD), identificato come principale responsabile dello stress idrico nelle piante. In pratica, con l’aumento del calore, l’aria è in grado di trattenere maggiore umidità, ma ciò costringe le colture a traspirare di più per mantenere il proprio equilibrio idrico, compromettendone la crescita.
Secondo gli autori dello studio, questo indicatore climatico è stato finora sottovalutato, pur avendo un ruolo decisivo nella riduzione della produttività agricola. In particolare, si evidenzia che durante i periodi critici per lo sviluppo delle colture, la temperatura media si è alzata dell’80% rispetto a cinquant’anni fa, accentuando lo stress idrico.
Anche se l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera potrebbe teoricamente stimolare la crescita delle piante, i benefici osservati si sono rivelati insufficienti per compensare le perdite legate al clima, ad eccezione di alcune colture come soia e riso, che hanno mostrato una certa resilienza.