Contro il burnout da performance estetica (e da social) restano atti di disobbedienza civile

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(La redazione di fem) May 15, 2025 · 4 mins read
Contro il burnout da performance estetica (e da social) restano atti di disobbedienza civile
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Quando Bella Hadid, una delle modelle più famose e influenti del mondo, ha pubblicato una serie di foto di sé stessa in lacrime e senza trucco, con la didascalia “Mi sono persa cercando di essere perfetta. Ogni giorno mi sveglio sentendo di non essere abbastanza", parlava di depressione legata al beauty burnout. Era l'autunno del 2021, si iniziava appena a registrare gli effetti della pressione da social, spazi virtuali che impongono a ciascuno di mostrare una versione distorta di sé e della propria realtà. 

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Abbiamo parlato tante volte dei rischi per la salute mentale di uno scorretto e ossessivo uso dei social, ma in questo caso al centro c'è un invisiibile patto tra standard estetici impossibili e un sistema che gode nel vederci annaspare. Non è iniziato tutto dai post di Bella Hadid, per quanto abbiano dimostrato che anche chi incarna perfettamente il modello estetico dominante può crollare sotto il peso degli standard. I post della modella sono infatti parte di una immensa rete di piccoli e grandi contenuti diffusi da persone comuni, celebrità, esperte ed esperti di salute mentale e soprattutto attivisti e attiviste che affrontano temi legati al corpo e alle industrie della dieta e della bellezza

Si sono espressi pubblicamente contro l’ossessione per l’aspetto esteriore, i canoni estetici irrealistici e la pressione a “performare bellezza” contribuendo, direttamente o indirettamente, a portare alla luce il concetto di beauty burnout. Alcune lo hanno fatto attraverso confessioni personali, altre con scelte estetiche radicali, altre ancora con veri e propri atti di disobbedienza: perché che lo vogliamo oppure no, abitiamo, anzi siamo, una civiltà in cui mostrarsi senza filtri è un atto di disobbedienza e nemmeno privo di rischi sempre connessi alla salute mentale, visti i commenti di inaudita violenza che siamo capaci di scrivere sotto ai post dell'influencer grassa o a quella queer e con i brufoli.

quell'ansia che serpeggia sottopelle: l'ansia da performance estetica

Cos'è il beauty burnout, se non una forma di esaurimento fisico, mentale ed emotivo legato alla pressione costante di apparire al meglio che si può, lì dove "meglio che si può" significa avvicinarsi il più possibile e con ogni mezzo a disposizione a un modello estetico preciso, che cambia di anno in anno? Filler, botox, diete, microchirurgia per somigliare "a come si é nei filtri instagram": chiaramente non si tratta solo di vanità o insicurezza. Piuttosto è il risultato di una cultura dell'immagine esasperata, fatta di filtri, tutorial infiniti, skincare da 12 step, trattamenti “preventivi” prima ancora di aver compiuto vent'anni e paragoni costanti con dei corpi e dei volti che esistono solo sui social e non nella realtà.

Chi ne soffre può sentirsi perennemente inadeguato/a; ossessionato/a dal perfezionamento del proprio corpo e del proprio viso, esaurito/a da una routine estetica che sembra non avere fine, che non è mai abbastanza, per sentirsi colpevole se molla o se si mostra al naturale. Per vivere nel terrore di ricevere commenti brutali e giudizi crudeli.

Il problema non è certamente truccarsi, è quando quella cura diventa una gabbia, una performance, una corsa senza pausa. E se prima era un fenomeno limitato a chi lavorava con l’immagine, oggi riguarda tutte e tutti: adolescenti, professionisti/e, madri e padri, influencer e persone con dieci followers, bambine e bambini e perfino quelle frange di attivisti e attiviste ben coscienti delle dinamiche tossiche che resistono dietro alla pressione estetica. 

Il beauty burnout è subdolo perché non si vede da fuori e chi lo sperimenta lo confonde con altri tipi di malessere. Ma invece si manifesta nell'ansia dovuta all'estetista che posticipa l'appuntamento, nello stress del non trovarsi, dal vivo, somigliante alle immagini di sé filtrate che circolano online, nel senso di frustrazione opprimente, quando nonostante mille ritocchi, con il make up o con le punturine, non ci si sente pronte e pronti a mostrarsi. È il rifuto della propria natura.

Non è una sindrome da manuale, ma un sentimento che serpeggia tra specchi e feed di Instagram. È il tempo mentale dedicato a inseguire un ideale che non esiste ma che ci viene spacciato per reale mentre noi non riusciamo più a distinguere la verità dal filtro social e abbiamo ceduto alla trappola dell'autocura. Una cosa che si chiama "self-care" e che si vende come empowerment, ma che si legge "gabbia" e che è un dispositivo di controllo.

mostrarsi per come si è davvero è un gesto profondamente politico

Prendersi cura di sé è una cosa, sentirsi frustrate per ogni occhiaia o una ruga un’altra. Ma la linea è sempre più sottile ed è su quel confine che stiamo ballando da diversi anni. E l’industria lo sa. Il corpo è ormai un cantiere perpetuo, la bellezza un obiettivo che si allontana ogni volta che ci si avvicina.