La Luna, da sempre simbolo di immaginazione e conquista, è oggi considerata una possibile miniera di uno degli isotopi più rari e ambiti: l’elio-3. Intrappolato per miliardi di anni nel suolo lunare dal vento solare, questo elemento potrebbe diventare un tassello decisivo tanto per il raffreddamento dei computer quantistici quanto per la futura energia da fusione nucleare. Una prospettiva che ha acceso una competizione globale, in cui Stati Uniti e Cina sono i protagonisti più determinati, seguiti da Russia, India, Europa e altre nazioni che non vogliono restare indietro.
L’elio-3 sulla Terra è scarso: arriva quasi esclusivamente dal decadimento del trizio presente negli arsenali nucleari, con quantità che non bastano a soddisfare neppure le esigenze di un’industria quantistica in espansione. Al contrario, il suolo lunare ne custodirebbe enormi quantità, sebbene a concentrazioni minime. Secondo stime ottimistiche, ci sarebbero fino a un milione di tonnellate, sparse però in granelli di regolite. Per ottenere pochi litri di gas utilizzabile servirebbe lavorare volumi di terreno grandi come una piscina.
Il suo impiego principale oggi riguarda la criogenia. Nei frigoriferi a diluizione, miscelato con elio-4, permette di raffreddare i qubit a temperature di pochi millikelvin, più basse di quelle dello spazio interstellare. Senza questa condizione estrema, i computer quantistici non potrebbero funzionare. Ma l’elio-3 è prezioso anche per la diagnostica medica, per rilevatori di radiazioni e, in prospettiva, per reazioni di fusione nucleare “pulita”, che produrrebbero meno scorie radioattive rispetto a quelle tradizionali. Un sogno che, se realizzato, fornirebbe energia abbondante con un impatto ambientale ridotto.
Il problema, però, non è solo trovarlo, ma estrarlo. La regolite lunare è abrasiva, carica elettrostaticamente e ostile a qualsiasi macchinario. Servono sistemi autonomi, capaci di scavare, riscaldare il terreno a temperature elevate, separare l’elio-3 dagli altri gas e conservarlo in sicurezza. Startup come Interlune stanno già testando prototipi di macchine mobili, in grado di processare centinaia di tonnellate di terreno in un’ora. Ma anche se i primi sistemi funzionassero, resterebbe da affrontare il nodo della purificazione, dello stoccaggio e del trasporto verso la Terra.
Nonostante le difficoltà, il 2025 ha segnato un passaggio simbolico: il Dipartimento dell’Energia statunitense ha acquistato per la prima volta tre litri di elio-3 lunare, dando un segnale chiaro di interesse strategico. Anche colossi del settore quantistico e informatico hanno iniziato ad assicurarsi forniture future, nella speranza che i prototipi diventino presto impianti pilota. Parallelamente, diverse missioni di ricognizione si preparano a mappare la distribuzione dell’isotopo e a testare le tecniche di estrazione sul campo.
Il contesto geopolitico rende la corsa ancora più accesa, poiché il Trattato sullo spazio del 1967 vieta la sovranità sulla Luna, ma non proibisce l’estrazione di risorse. Gli Stati Uniti, con il Space Resource Act del 2015 e gli Accordi Artemis del 2020, hanno già definito un quadro legale che consente alle aziende private di rivendicare i frutti delle proprie operazioni. Cina e Russia non hanno aderito e propongono un modello alternativo, legato a una futura stazione lunare congiunta. L’Unione Europea, invece, privilegia studi e collaborazioni scientifiche, mentre l’India, forte del successo di Chandrayaan-3, punta a ritagliarsi un ruolo emergente.
Controllare la catena di approvvigionamento dell’elio-3 significherebbe dominare un settore fondamentale come il quantum computing e, un domani, l’energia da fusione. Non a caso gli osservatori paragonano questa corsa alla gestione cinese delle terre rare: chi controlla l’estrazione e la distribuzione può influenzare intere filiere tecnologiche. Per ora l’estrazione rimane un traguardo lontano.