Crisi umanitarie, conflitti e ingiustizie: chiudersi a riccio e ignorare le notizie non deve scatenare sensi di colpa

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(La redazione di fem) Jun 24, 2025 · 4 mins read
Crisi umanitarie, conflitti e ingiustizie: chiudersi a riccio e ignorare le notizie non deve scatenare sensi di colpa
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Millennial, Gen Z e perfino Gen X si apprestano ad affrontare l'ennesimo scenario che dovrebbe presentarsi "una volta nella vita". Dopo la pandemia da Covid del 2020, la rimonta delle destre reazionarie e gli assalti al Campidoglio, il conflitto russo ucraino e quello a Gaza, eccoci a leggere e ad ascoltare notizie sulla scesa in campo degli Stati Uniti contro l'Iran, con bombardamenti nella notte e un orizzonte che prende tinte sempre più fosche.

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E questo al netto di conflitti che percepiamo come minori, come le diverse decine di guerre interne al continente africano, e alle dinamiche di sfruttamento sistemico dei popoli di alcuni Paesi asiatici da parte di un Occidente assetato di forza lavoro semi gratuita e risorse. Abbiamo intervistato Stefania Russo, medico specialista in psichiatra e in formazione in psicoterapia che vive e lavora a Milano, e le abbiamo chiesto come sostenere, da una prospettiva di salute mentale, questo "stress".

ansia e senso di impotenza amplificati da social e notizie: "isolarsi non è sbagliato"

Fagocitati, fagocitate, nell'era dell'iperinformazione non ci prendiamo mai un momento di pausa e siamo costantemente bersaglio di notizie catastrofiche. Oppure no? "Chi fa informazione non sempre è consapevole del potere dei titoli e delle immagini che veicola: la ricerca ossessiva del titolo estremo e scioccante, pensato per colpire chi è più sensibile, finisce per amplificare ansia e senso di impotenza", dice la dottoressa che precisa anche che quella di vivere delle circostanze particolarmente instabili potrebbe essere una illusione (anche indotta dalla globalizzazione e dall'iperconnessione).

"Non è la prima volta che assistiamo a uno scenario del genere: nei decenni scorsi c'è stato l’Iraq, poi l’Afghanistan, ma abbiamo vissuto come società anche dei terremoti disastrosi, per esempio. Le catastrofi ci sono sempre state ma per registrarne gli effetti emotivi occorre lavorare sul lungo termine". La differenza è che oggi si parla di traumi psicologici anche tra chi non vive direttamente situazioni di pericolo, "ma è importante distinguere: ricevere notizie da lontano non equivale a vivere nel fronte attivo dello stress", spiega la dottoressa Russo, "Non possiamo considerarci vittime dirette, ma al massimo osservatori sensibili ed empaticamente coinvolti".

Se molte persone reagiscono con stanchezza, isolamento o rifiuto dell’informazione non è sbagliato: "tutelarsi non dovrebbe mai diventare motivo di colpa anzi è salutare. Al contrario è tossica la compulsione, volontaria o involontaria, con cui ci nutriamo di notizie dai fronti di guerra", avverte. "Può essere utile piuttosto scegliere poche fonti affidabili, meglio se giornalisti e giornaliste specializzati, capaci quindi di offrire un quadro geopolitico ampio e completo, oltre che uno sguardo lucido e non sensazionalistico che possa aiutarci a comprendere che quanto accade nel mondo non riguarda solo la sopravvivenza del singolo italiano, della singola italiana". Ma c'è di più: "Il senso di ingiustizia sociale è una risposta strutturale e profonda di alcuni soggetti con delle caratteristiche specifiche".

chi empatizza davvero potrebbe avere l'adhd

Secondo la psichiatra è inevitabile domandarsi se non stiamo presumendo, sbagliando, che le circostanze attuali atterrino allo stesso modo su tutte le persone. "La reazione delle persone alle crisi globali non è affatto uniforme", spiega immediatamente. "E la questione è complessa poiché tocca aspetti clinici, emotivi e neurobiologici: chi si attiva emotivamente di fronte a eventi traumatici, anche lontani? Esistono dei profili specifici che sono più predisposti a sentire empatia".

Secondo l'esperienza della dottoressa Russo, le persone che si impegnano genuinamente nel sociale – non quindi chi ne fa becero personal branding – tendono ad avere un profilo di alta sensibilità.

"In particolare soggetti con ADHD o nell’area dello spettro autistico spesso manifestano un senso accentuato di giustizia, una forte partecipazione emotiva e un autentico coinvolgimento verso cause collettive: questo li rende particolarmente reattivi alle ingiustizie e alle crisi, anche se lontane geograficamente".

In tal senso i social giocano la partita tanto quanto le condizioni neurobiologiche individuali. "La possibilità di creare comunità online con persone geograficamente distanti ha permesso alla società di oggi di sentirsi connessa e, quindi, coinvolta". Ma questo fenomeno ha anche dei fortissimi limiti. Limiti che abbiamo imparato a chiamare sistema a bolle: quella dinamica per cui sui social intercettiamo personalità e contenuti che in linea di massima sono allineati con noi. "Ma non funziona", avverte la psichiatra, "crea piuttosto un senso illusorio di potere e di impatto che a volte può essere rassicurante ma che di fatto è angosciante, perché non è in grado di produrre alcun impatto su larga scala".

l'illusione delle bolle social vs ritrovare una dimensione collettiva

Occorre infatti riflettere sull’illusione creata dai social network. "Le cosiddette bolle digitali sono evidentemente dei rifugi ma non sempre funzionano come rifugi: l'impressione è di essere circondate, circondati, da persone con la stessa sensibilità e con cui si condivide lo stesso punto di vista e per quanto sia reale l'impegno, è falso e illusorio il senso di impatto e controllo. L'avanzata tecnologica non ha modificato gli equilibri che regolano la società e capitalismo, avarizia e logiche di potere restano intatte", sottolinea la psichiatra, "E se è vero che le comunità online offrono conforto, è anche vero il mondo esterno procede nella direzione opposta". E a un qualche livello anche chi vive dentro alle bolle più attive ne è cosciente.