Un pianeta che si scalda non cambia solo le mappe climatiche, ma anche quelle della salute pubblica. E' quanto sostiene un’analisi guidata da Marissa Childs, ricercatrice dell’Università di Washington, la quale indica che l’incidenza della dengue potrebbe aumentare tra il 49% e il 76% entro il 2050 in ampie aree di Asia e Americhe. Il lavoro, pubblicato il 9 settembre su PNAS, è tra i più completi nel quantificare l’impatto diretto delle temperature sulla diffusione del virus trasmesso dalle zanzare e fornisce prove che il riscaldamento globale ne abbia già incrementato il peso sanitario.
La dengue, un tempo associata soprattutto alle zone tropicali, provoca di solito sintomi febbrili simili all’influenza, ma nei casi gravi può evolvere verso emorragie, insufficienza d’organo e decesso. La ricerca ha raccolto oltre 1,4 milioni di osservazioni sull’incidenza locale in 21 Paesi dell’America Centrale e Meridionale e del Sud e Sud-Est asiatico, includendo sia i picchi epidemici sia i livelli di base. Questo sforzo di raccolta dati ha permesso di distinguere l’effetto della temperatura da altri fattori che influenzano la trasmissione — come mobilità, uso del suolo e dinamiche demografiche — isolando il contributo del clima al carico reale della malattia.
La trasmissione raggiunge il massimo in una sorta di “zona Goldilocks” intorno ai 27,8 °C. Quando aree oggi più fresche si avvicinano a questo valore, l’incidenza cresce rapidamente; al contrario, dove il caldo supera l’intervallo ottimale si osserva un lieve calo. Per questo, le crescite maggiori sono previste in regioni relativamente fresche ma densamente popolate di Paesi come Messico, Perù e Brasile, mentre molte aree già endemiche continueranno a registrare un aggravio del carico. Alcune pianure tra le più torride potrebbero invece sperimentare lievi diminuzioni, senza però invertire il trend globale, che rimane di forte aumento.
Guardando al passato recente, gli autori stimano che l’aumento delle temperature abbia già determinato in media un +18% di incidenza tra il 1995 e il 2014 nei 21 Paesi analizzati. Applicando le stime attuali, ciò corrisponde a oltre 4,6 milioni di infezioni in più ogni anno. Proiettando in avanti, lo scenario peggiore legato a emissioni più elevate porterebbe entro metà secolo a un raddoppio dell’incidenza in molte località oggi più fresche, aree che ospitano già più di 260 milioni di persone.
La mappa della dengue non è però immobile, e i segnali si vedono anche fuori dai tropici: sono stati segnalati casi autoctoni in California, Texas, Hawaii, Florida e in Europa, indicazione di un raggio d’azione in espansione. Gli autori precisano che le stime sono probabilmente conservative: alcune regioni con trasmissione sporadica o con sistemi di sorveglianza deboli non rientrano nei dati, e grandi aree endemiche — come l’India o parti dell’Africa — mancano di informazioni dettagliate o accessibili.
Un taglio deciso delle emissioni ridurrebbe sensibilmente il carico della malattia. In parallelo, serviranno adattamento e prevenzione: controllo dei vettori più capillare, sistemi sanitari rafforzati e un ricorso più ampio ai nuovi vaccini contro la dengue potranno attenuare il rischio. Urbanizzazione, migrazioni umane e possibile evoluzione del virus, d’altro canto, potrebbero amplificarlo, rendendo le proiezioni inevitabilmente incerte.