Desideri senza nome: su "Fuori" di Mario Martone, amicizie romantiche e cultura saffica

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(La redazione di fem) May 29, 2025 · 5 mins read
Desideri senza nome: su
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Dal regista italiano più presente nei festival degli ultimi anni – con capolavori come Capri Revolution e Il giovane favoloso alle spalle, nonostante il flop a Cannes – arriva Fuori, un film che ruota attorno a uno dei nomi più significativi della letteratura italiana. Una figura tornata prepotentemente in auge grazie al successo della miniserie Sky L’Arte della Gioia, diretta da Valeria Golino: Goliarda Sapienza.

"Fuori" di Mario Martone: il trailer del film a Cannes con Golino, De Angelis ed Elodie

Golino, Martone, Sapienza: un gioco di specchi

Ed è proprio Golino (qui inizia Inception) a interpretare la scrittrice, in un film che prende spunto da alcuni suoi scritti memoriali, raccontando la breve detenzione nel carcere romano di Rebibbia dopo il furto di alcuni gioielli. Da qui, Martone rievoca una Roma estiva e ansiosa, attraversata da ombre di solitudine e barlumi di umanità.

Una donna fuori posto (e fuori tempo)

Il ritratto di Goliarda è una tela fumosa. Una scritta d’apertura e una di chiusura ci offrono qualche coordinata: cresciuta in una famiglia antifascista che la tenne lontana dalla scuola per evitarle l’indottrinamento, divenne un’intellettuale fuori posto, incompresa, che non riusciva a piazzare il romanzo della sua vita. Un’opera che, beffardamente, sarà pubblicata solo postuma – e in Francia, perché in Italia “non se la filò nessuno” fino al 2008.

La Goliarda silenziosa e quella che si risveglia

Nel film, Goliarda appare come un’ombra tra le ombre: solitaria, disillusa, estranea. Le telefonate notturne, i colloqui mancati, i bicchieri di whiskey raccontano più di mille parole. Il suo look anni Sessanta, i capelli fuori moda, la rendono un’apparizione fuori tempo massimo. La vera Goliarda emerge solo a metà film, quando torna a bussare il passato, nella forma sgangherata e amorevole della comunità femminile conosciuta in carcere: un luogo paradossale, in cui si vive con una libertà più autentica. Quelle donne, dice lei stessa, vivono il “fuori” come se fossero ancora “dentro”.

Un elemento critico, però, va segnalato: molte delle conversazioni tra Goliarda e le altre detenute sono coperte da musica e da una messa in scena estetizzante, che ci mostra quanto si stanno divertendo… senza mai farci sentire cosa si stanno dicendo.

Un inno all'amicizia femminile?

Se Fuori è stato venduto come un inno all’amicizia femminile, qualcosa stride: viene sacrificata la componente queer del film, che è lì, chiarissima, tutt’altro che ambigua. Goliarda lo dice: le donne le hanno sempre incasinato la vita. Nulla a che vedere con le relazioni lineari con gli uomini, fatte di aspettative e conferme. Confessa di aver amato l’amica che ha derubato – una relazione fatta di carota e bastone, di cene suntuose e rifiuti cruciali. E altrettanto complessa è la storia con Roberta, una Matilde De Angelis votata al crimine e grondante vita da far piangere.

All’inizio, Roberta la tratta con distacco. Goliarda la osserva, la studia, le annusa i capelli sul tram. È evidente: questa donna matura, intellettuale e silenziosa è catturata dalla forza vitale, discontinua, imprevedibile e bellissima di Roberta.

Amicizie romantiche: la comunità saffica di Rebibbia

Sullo sfondo, una commistione continua tra amicizia e romanticismo. Dalle scene in prigione nascono – come astri – quelle amicizie romantiche che, nella cultura lesbica, hanno una storia lunghissima. Quando la società negava alle donne il diritto di essere soggetti desideranti, i legami tra donne venivano glorificati come pure amicizie platoniche, lasciandoci oggi a boccheggiare nel tentativo di definire con precisione dove finisce l’affetto e dove inizia l’amore. E ancora oggi, nella socializzazione femminile, quel limite è labile – e infiamma i legami.

Corpi nudi e il carcere come mondo (che vorremmo vedere di più)

La scena della doccia a tre nella profumeria di “Elodie” è un atto di comunità più che un gesto sessuale. “Non ti piace farti vedere nuda”, dice Goliarda a Roberta, ma di fronte a loro si spoglia. E nel flashback in cella, le detenute parlano apertamente degli innamoramenti e delle infatuazioni nate tra di loro. A volte talmente forti da far tornare una donna in carcere solo per rivedere la compagna di cella. Perché là dentro, nella vicinanza emotiva, nel vivere gomito a gomito, le relazioni si trasformano – soprattutto in quella zona densa e intima che tinge i legami femminili. Grandi amori o grandi amicizie? Poco importa. Gli uomini che attendono fuori sono solo un altro mondo: al di fuori di questa orbita.

La parte del carcere meritava più spazio. È vero: Goliarda ci è stata solo quattro giorni, e Martone si mantiene fedele ai fatti. Ma… io un film girato tutto lì dentro lo guarderei.

Tra maternità e desiderio: lo spazio liminale

Il cuore della pellicola, comunque, resta la relazione ambigua tra Goliarda e Roberta. L'iniziale patetismo di cui già ho parlato – un trope comune nella rappresentazione queer maschile, ma raro in quella femminile – scivola verso una zona indefinibile, quasi incestuosa. Roberta ha un rapporto irrisolto con la madre: si sente una figlia indegna, vive per vendicarsi delle preferenze che la madre ha sempre accordato ai maschi della famiglia. In Goliarda vede qualcosa della madre, ma anche un’amica, una donna che desidera. E Goliarda c’è. La adora. Non si scandalizza nemmeno all’idea di impersonare quella madre – per lei è un orgoglio. Ma soffre quando si sente usata, poi scartata.

Vogliamo storie storte, non rassicuranti

Non voglio spoilerarvi il climax di questa proiezione incestuosa, né il fantasma che infesterà i successivi scritti di Goliarda. Ma sono uscitə dalla sala pensando che il cinema ha bisogno proprio di questo: non di relazioni ripulite, corrette, lineari, ma di legami sporchi, complessi, contraddittori. Di quelli che non si possono incasellare, che confondono, che complicano identità e rapporti, che si rifiutano di aderire a qualsiasi etichetta erotico-sentimentale.

Il queer che vive anche dove non è detto

E queste storie stanno sbocciando nel cinema europeo, spesso in film che non sono "sulla queerness", ma ne parlano comunque. Come Marcello Mio di Christophe Honoré (coproduzione italo-francese), un meraviglioso inno alla non-binarietà che diventa queer nel tentativo di recuperare un’eredità e un rapporto padre-figlia attraverso un’appropriazione di corpo, una messa in scena in drag.