Google tira un sospiro di sollievo: tramonta la minaccia di dover vendere il browser Chrome. Ma comunque si trova davanti alla prospettiva di dover ripensare profondamente alcuni nodi nevralgici del proprio modello di business, rinunciando a privilegi di cui fino ad oggi ha fruito ampiamente.
Più che di una vittoria rotonda, insomma, possiamo parlare di una vittoria mutilata. Il giudice federale Amit Mehta ha infatti respinto la richiesta del Dipartimento di Giustizia (DOJ) americano di costringere Google a cedere il Chrome. Non si tratta però di una trionfo su tutti i fronti: la sentenza ha confermato confermato il monopolio della società nella ricerca online, imponendo restrizioni significative. Tanto è bastato, comunque, per far schizzare il titolo di big G a Wall Street, con un guadagno del 6%.
LE NUOVE REGOLE DEL GIOCOOltre a permettere a Google di mantenere Chrome, il giudice ha concesso all'azienda di continuare a pagare i partner di distribuzione (come Apple e Mozilla) per la preinstallazione o il posizionamento dei suoi prodotti di ricerca e intelligenza artificiale. Attenzione, però, perché la questione è sottile: a questa concessione si accompagna il divieto di stipulare con partner terzi accordi esclusivi per rendere Google Search, Chrome o Gemini i servizi predefiniti.
Una limitazione importante, che pone fine ai contratti multimiliardari con Apple, Samsung e Mozilla che per anni hanno garantito a Google l'egemonia nella ricerca su piattaforme cruciali. La compagnia dovrà inoltre consentire agli utenti di scegliere facilmente motori di ricerca alternativi durante la configurazione iniziale dei dispositivi.
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In aggiunta, il giudice ha imposto a Google di condividere informazioni preziose con i rivali, anche se non quelle legate alla pubblicità. Le "aziende qualificate" potranno acquistare una copia "una tantum" di alcuni dati di ricerca.
Nella sua sentenza di 230 pagine, il giudice Mehta ha sostenuto che il Dipartimento di Giustizia non è riuscito a dimostrare che soluzioni meno drastiche non sarebbero state sufficienti. Mehta ha espresso scetticismo sul fatto che la cessione di Chrome non avrebbe portato semmai a un "sostanziale degrado del prodotto e a una perdita per il benessere dei consumatori", poiché il browser dipende fortemente dall'infrastruttura di Google.
SIAMO SOLO ALL'INIZIOLa decisione è un momento decisivo del più grande caso antitrust dai tempi di Microsoft negli anni '90, ma non rappresenta certo il suo epilogo. Google ha già annunciato ricorso contro la qualifica di "monopolista": siamo solo all'inizio, insomma, di un processo che potrebbe protrarsi per anni, con lo scenario tech sullo sfondo che nel frattempo evolve a ritmi forsennati.
Lee-Anne Mulholland, vicepresidente di Google per gli affari normativi, ha dichiarato che l'azienda sta esaminando attentamente la decisione, esprimendo preoccupazione su come le nuove disposizioni potrebbero avere un impatto sulla privacy degli utenti. Ha anche sottolineato con soddisfazione che la corte ha riconosciuto come la vendita di Chrome e Android avrebbe danneggiato i consumatori e i partner.
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Le critiche più dure sono arrivate da alcuni concorrenti e gruppi di attivismo. Il CEO di DuckDuckGo, Gabriel Weinberg, ha sostenuto che la sentenza non è sufficiente a porre fine al monopolio, e il gruppo American Economic Liberties Project ha definito la decisione un atto di "codardia" di fronte al colosso tech.
A margine della vicenda, è interessante notare che la sentenza sulla ricerca esclude esplicitamente l'obbligo di concedere agli editori un maggiore controllo su come Google utilizza i loro contenuti, nonostante le proteste secondo cui le AI Overviews starebbero cannibalizzando il loro traffico di ricerca. Resta da vedere come Google affronterà questa serie di sfide legali, che minacciano di ridisegnare la struttura del suo vasto impero.