Il celebre cratere di gas di Darvaza, noto in tutto il mondo come la “Porta dell’Inferno”, sta finalmente perdendo vigore. A rivelarlo sono recenti rilevazioni scientifiche effettuate da Turkmengaz, l’ente statale del gas del Turkmenistan, che ha annunciato un netto calo nell’attività di combustione del sito. Il cratere, simbolo inquietante ma affascinante del deserto del Karakum, brucia ininterrottamente dal 1971, quando un’operazione sovietica di trivellazione portò all’inaspettata scoperta di una sacca di gas naturale.
L’incendio, originato per evitare la diffusione di gas tossici nell’atmosfera, avrebbe dovuto spegnersi nel giro di pochi giorni. Invece, da oltre mezzo secolo, alimenta fiamme altissime che hanno attratto decine di migliaia di curiosi da tutto il mondo. I numeri parlano chiaro: il cratere ha consumato milioni di metri cubi di metano, sprigionando calore con temperature che hanno superato i 1.000 gradi Celsius. Oggi però, quella che un tempo era una spaventosa voragine incandescente visibile anche a chilometri di distanza, appare più come un ricordo acceso nel cuore della sabbia.
Il rallentamento dell’attività è stato comunicato ufficialmente il 5 giugno, in occasione della conferenza scientifica internazionale di Ashgabat dedicata alla sostenibilità nello sviluppo degli idrocarburi. Qui, i tecnici hanno spiegato che il fenomeno è dovuto all’esaurimento progressivo del metano ancora presente nel sottosuolo del cratere. Gli interventi recenti, tra cui la perforazione di numerosi pozzi di contenimento attorno all’area, hanno avuto lo scopo di intercettare e incanalare il gas residuo, riducendo le emissioni e limitando il pericolo ambientale.
La direttrice di Turkmengaz, Irina Luryeva, ha sottolineato che oggi le fiamme risultano visibili soltanto a breve distanza e che il bagliore rosso che un tempo illuminava le notti del Karakum è ormai un’eco flebile. “Oggi si scorge appena una lieve combustione, ben lontana dallo scenario infernale che dava il nome al sito”, ha dichiarato.
Sebbene le cause esatte della formazione della cavità rimangano in parte avvolte nel mistero, la versione più accreditata è quella di un cedimento del terreno seguito alla perforazione sovietica. La zona, al tempo scarsamente esplorata, venne stabilizzata appiccando un incendio controllato per bruciare le esalazioni nocive. Quella fiamma provvisoria è però diventata permanente, trasformando il cratere in uno dei simboli più fotografati dell’Asia centrale.
Nonostante il suo impatto visivo, il cratere non ha mai causato vittime e ha contribuito involontariamente allo sviluppo turistico della regione, attirando ogni anno oltre 10.000 visitatori. Il Turkmenistan, uno dei Paesi con le più vaste riserve di gas naturale al mondo — oltre 50.000 miliardi di metri cubi secondo le stime — ha più volte espresso la volontà di chiudere il sito per evitare lo spreco energetico e ridurre l’impatto ambientale.
Il lento spegnimento della Porta dell’Inferno segna forse la fine di uno dei più inquietanti e affascinanti fenomeni antropici del secolo scorso. Ma per molti rimarrà un simbolo di come l’intervento umano sull’ambiente possa generare effetti imprevedibili e duraturi, in grado di resistere anche oltre le intenzioni iniziali.