Le città sono progettate secondo i bisogni degli uomini: l'architetta Dolores Hayden e la sua "città non sessista"

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(La redazione di fem) Sep 29, 2025 · 3 mins read
Le città sono progettate secondo i bisogni degli uomini: l'architetta Dolores Hayden e la sua
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Negli anni Settanta quando il movimento femminista negli Stati Uniti discuteva di salari, rappresentanza politica e libertà dai ruoli di genere, un’architetta e storica di nome Dolores Hayden portò la battaglia su un altro fronte: lo spazio urbano.

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La sua intuizione oggi, che tanto si discute di sicurezza degli spazi pubblici, appare abbastanza semplice ma all'epoca fu rivoluzionaria: se la città moderna è progettata attorno ai bisogni dell’uomo lavoratore – con quartieri dormitorio, zone industriali e centri commerciali – allora quella stessa città era strutturalmente ostile alle donne, alle loro vite frammentate tra lavoro salariato e lavoro domestico, tra cura dei figli e mobilità ridotta. Hayden, senza giri di parole, discuteva di “città apertamente sessiste”.

quartieri cooperativi, spazi comuni e strutture per l'infanzia

La risposta al tema è stata immaginare e progettare una città banalmente non sessista. Hayden raccolse nel saggio The Grand Domestic Revolution le sue idee e le sperimentò in progetti urbani concreti. Una delle sue proposte più discusse fu quella dei quartieri cooperativi: complessi residenziali dove le abitazioni private erano integrate con servizi condivisi come cucine comuni, lavanderie collettive, spazi di gioco sicuri, mense, strutture per l’infanzia.

In questo modo il lavoro domestico, storicamente scaricato sulle spalle delle donne, poteva essere socializzato e reso più leggero, liberando tempo ed energie. Il suo lavoro ovviamente non è nato dal nulla: per ipotizzare nuovi modelli di città, Hayden studiò a fondo i precedenti ottocenteschi delle utopie femministe, dal concetto di cooperativismo di Fourier alle comuni socialiste, fino alle sperimentazioni delle suffragette inglesi che avevano immaginato quartieri di case collettive per emancipare le madri. 

Lei stessa, come architetta, provò a tradurre quelle visioni in piani urbanistici reali: un intreccio di case, scuole, cucine collettive, spazi verdi e servizi a breve distanza, così da evitare ore di spostamenti quotidiani (i cui disagi le madri li conoscono bene). L’idea non era tanto cancellare la famiglia nucleare, quanto smontare l’isolamento domestico e offrire alternative concrete. La proposta di Hayden fu accolta con reazioni contrastanti.

Molti urbanisti la considerarono visionaria ma poco realistica; altri e altre, soprattutto donne attive nei movimenti, videro nelle sue idee strumenti pratici per trasformare la vita quotidiana. Non si trattava solo di architettura, ma di politica pura: ridefinire la città significava ridefinire i ruoli sociali.

come è andata a finire? lo vediamo ogni giorno

Il suo “esperimento” non si concretizzò mai su larga scala, ma piantò un seme che continua a germogliare, a un certo punto ci auguriamo fiorirà. Perché lo spazio non è neutro, ormai si sa. Strade, case, trasporti, servizi: tutto questo prende la propria misura a partire da valori nei quali una civiltà si riconosce oppure, come nel nostro caso, no. Non più almeno. La città è ancora però modellata sul corpo e sul tempo dell’uomo salariato, e le conseguenze sono ancora davanti ai nostri occhi: pendolarismo infinito, madri costrette a fare i salti mortali, quartieri che isolano invece di connettere.

Hayden ci invitava già negli anni Ottanta a immaginare città che mettano al centro la persona, non l'uomo lavoratore, in cui le donne (e le altre soggettività) non restino appendici marginali che devono fare le capriole per adattarsi. Rileggere oggi il suo progetto significa misurarsi con una domanda radicale: è possibile ripensare l’urbanistica in chiave di uguaglianza di genere?