La ricerca di forme di vita al di fuori della Terra continua a spingere astronomi e scienziati verso nuovi orizzonti, ma una delle sfide principali resta sapere dove guardare. Oggi, un team guidato da un astrofisico con oltre vent’anni di esperienza presenta un sistema impostato su modelli matematici, per individuare quali esopianeti e lune abbiano realmente possibilità di sostenere forme di vita.
Finora, la strategia predominante si basava sul criterio “seguire l’acqua”, considerando la sua presenza segno di condizioni favorevoli. Tuttavia, la nuova metodologia va oltre questa visione semplificata. Grazie alla creazione di due distinti modelli – uno per l’organismo e uno per l’habitat – è possibile calcolare con un approccio probabilistico se l’ambiente può sostenere determinate specie, anche ipotetiche.
L’aspetto più originale di questo sistema è l’attenzione a organismi specifici, reali o immaginari. Non più un generico “abitabile”, bensì una valutazione concreta basata sulle condizioni necessarie a una particolare forma di vita. Un ragno al Polo Sud o un microrganismo delle bocche idrotermali avrebbe requisiti molto diversi: il modello riesce a stimarne la compatibilità con il pianeta studiato.
Il sistema affronta inoltre l’incertezza insita nei dati spaziali. Le informazioni disponibili su atmosfera, temperatura, presenza d’acqua di esopianeti o lune come Marte, Europa o Encelado, provengono da osservazioni indirette e spesso incomplete. Il nuovo metodo accetta questa incertezza, integrandola nei calcoli: piuttosto che dare risposte definitive, suggerisce percentuali di compatibilità tra organismo e habitat.
Questo approccio nasce dal progetto Alien Earths, finanziato dalla NASA e supportato dall’iniziativa NExSS, che ha coinvolto oltre cento esperti tra biologici, ecologi, chimici e astrobiologi. Grazie a una ricca revisione bibliografica su specie terrestri estreme – da batteri termofili a insetti di alta montagna – gli scienziati hanno definito condizioni limite per la vita e hanno testato se potessero essere soddisfatte altrove, anche in ambienti extrasolari.
Un primo risultato interessante riguarda i pianeti individuati dall’osservatorio Kepler e da telescopi futuri come il JWST e la proposta Habitable Worlds Observatory. Il sistema aiuta a stabilire non solo se un corpo celeste rientri nella cosiddetta “zona abitabile”, ma se quell’ambiente possa realmente sostenere un tipo di vita specifico. Così diventa più semplice stabilire se puntare gli strumenti su Pianeta A o B, in base a dati concreti.
Il software è open-source e disponibile al pubblico scientifico: chiunque può migliorarlo, aggiungendo organismi reali o ipotetici alla banca dati. Nei prossimi mesi, il team punta a integrare centinaia di organismi estremofili e modelli di vita aliena. In futuro, questo aiuterà gli scienziati a interpretare eventuali segni biologici rilevati tramite telescopi o sonde, ponendo le basi per nuove campagne di esplorazione.
In una recente scoperta, un segnale sospetto dell’esopianeta K2‑18b ha diviso gli esperti: le rilevazioni potrebbero indicare metano o biochimica complessa, ma interpretarle senza contestualizzare l’ambiente è arduo. Qui entra in gioco il nuovo modello: non basta trovare un potenziale biosignatur, bisogna verificare che l’habitat possa sostenere la vita che lo ha prodotto.