Questa settimana vi parlo di narcisismo. Un termine fin troppo usato, a volte a sproposito. Eppure, reale. Perché il narcisismo esiste, e fa male.
Ma c’è una cosa che spesso dimentichiamo: i narcisisti – quelli veri – non sono tutti uguali.
Come direbbe Stefania Canovi, ce ne sono di due tipi. Quelli opachi, che non si mostrano mai per davvero (covert). E quelli luminosi, abbaglianti, capaci di entrare nella tua vita come se ne fossero sempre stati parte (overt).
Io sono stata innamorata perdutamente di uno opaco — ma oggi non parlo di lui. Parlo di quelli che brillano. Quelli che ti fanno credere che sei tu a non essere mai abbastanza.
Questa storia, quella del narcisista brillante, l’ho vissuta da fuori. L’ho sentita entrarmi sotto la pelle, giorno dopo giorno, ad ogni colazione con una cara amica. Le sue parole, il suo sguardo confuso, la sua speranza sempre un po’ più affaticata. Mi ha fatto arrabbiare, tanto. Per lei, per tutte noi. E mi ha anche fatto dispiacere. Perché anche chi ferisce così profondamente, spesso, è vittima delle proprie ferite.
Perché chi si muove nel mondo come un narcisista overt — seduttivo, centrato solo sul proprio bisogno di attenzione, incapace di riconoscere davvero l’altro — spesso non è solo carnefice, ma anche prigioniero. Prigioniero della sua immagine, della necessità di sentirsi sempre speciale, amato, confermato.
Come direbbe Canovi, non è una questione di “cattiveria”. È che certi vuoti, se non li guardi in faccia, ti governano.
E allora non ami: prendi. Anche senza volerlo.
Racconto
Il tronchetto della felicità mi accarezzava maldestramente e non richiesto il braccio sinistro. Fastidioso, ma cercavo di non notarlo, mentre ascoltavo Martina parlare di Guido. L'ascoltavo mentre toglievo chirurgicamente il cioccolato e la crema in eccesso dal mio cornetto bigusto. Mentre lo assaporavo, in testa Achille Lauro: “E non puoi uccidere l’amore, ma l’amore può.” Non mi do pace fra le fiamme.
Appoggio il cucchiaino e conto le briciole. Le metto in ordine con le dita. Respiro a fondo e guardo Martina. È stanca. La guardo e penso che se non accetta l’idea che lui non è l’unico uomo adatto a lei che troverà mai, si ammalerà. Magari sarà qualche ruga in più, magari sarà un tumore ematico, che ti viene quando “ti fai il sangue amaro una vita”. La guardo e ha la pelle spenta. E penso a Francesco e Annalisa, che per amore si sono riempiti la pelle di psoriasi.
La guardo mentre finisce di parlare, con la veneziana alla crema ancora intera di fronte e il caffè finito da un pezzo.
«Mari, non lo so io, ma sei veramente sicura che un uomo che ti dice che è colpa tua se tutto va male perché non sei mai felice, lo devi lasciare tu? Che te lo dice perché ti metti a piangere durante una passeggiata in spiaggia mentre ti comunica che va a vivere in barca da quest’estate, e che è un problema tuo se non ti va bene, perché lo sai da sette anni?»
Guido non aveva minimamente considerato che avere l’unico genitore rimasto in ospedale, in gravi condizioni, non permetteva nemmeno di sognare altro. Lui che è così intelligente, sicuro, che sa sempre tutto. Che però, se non gli rispondi a un messaggio per due giorni, esce pazzo. Che le dice che lo deve lasciare, perché così riversa la sua incapacità di scendere a compromessi con le altre persone, anche se — a modo proprio — le ama.
Così non ci si mette mai in discussione. Nessuna empatia, muri alti. Vittima di se stesso e carnefice di chi cade fra le sue braccia. Che viene smontato giorno dopo giorno. Una crepa nella propria sicurezza che si allarga ogni giorno.
Dopo un lungo silenzio, Martina:
«Ma io dove lo trovo un altro come Guido? Che mi conosce così bene, con il quale ho questa passione ogni giorno come fosse il primo.»
La guardo, resiste a sé stessa.
«Mari, lo capisco. Ma parli sempre di Guido. Martina cosa vuole? Perché non fai una lista di cosa vuoi — a mente o su un quaderno, come vuoi. Poi accanto annoti quanto è importante. Poniamo il caso: avere un progetto di vita insieme, viaggiare, la fiducia. Ecco, diciamo la fiducia: vale il 60%? Guido quanta te ne dà? Alla fine, se è lontanissimo, ti sei risposta.»
Martina mangia la veneziana e lascia gli zuccherini per ultimi nel piattino. Milano è caldissima, un forno. Eppure, siamo sotto un bellissimo pergolato, coperto di glicini.
«Ma io lo so già che non mi dà abbastanza. Ma se Guido ha ragione e sono io che non riesco a godermi il momento e rovino sempre tutto?»
Rompe il silenzio d’improvviso.
Bevo l’ultimo sorso del mio caffè americano. Ne ordino un altro al cameriere, che ci guarda storto: vorrebbe dare il nostro tavolo a una coppia con un cagnolino nero, la lingua a penzoloni dal caldo. Mi dispiace per il cane. Ma non è il momento.
«Un americano e un caffè… caffè giusto, Mari?»
«Sì, grazie.»
«Volete altro?», incalza il cameriere. Lo guardo male. Va via, rassegnato.
Chiudo gli occhi per un istante più del normale, ma non dico niente.
«Guarda, solo tu puoi sapere la risposta. Però ti ha detto:
“La settimana prossima, mercoledì, è il tuo compleanno. Volevo portarti al mare in barca con me, così facciamo un assaggio del futuro che ti propongo io. Ma poi finirebbe che litighiamo, e non te lo sei meritato con il comportamento che hai avuto ultimamente. Per cui ho deciso di andare via in barca come skipper, per il matrimonio di un amico caro. Torno fra una settimana.”»
Guido si è rifatto vivo con Martina un anno fa. Esattamente tra una settimana, il giorno del suo compleanno. Lo so perché ci siamo viste a cena al Gloria. Era raggiante, non l’avevo mai vista così felice.
Ho aspettato il flute di champagne per chiederle come si chiamasse il fortunato.
Guido.
Ma come, Guido?
Sì. Proprio lui.
Il narcisista patologico per cui era stata tre anni e mezzo in terapia. Con cui, pochi minuti prima di quella cena, si era rivista. E con cui avrebbe passato la notte.
So che aveva bisogno di riaprire quel libro rimasto a metà. Da allora, ogni nuova relazione era fallita: le mancava sempre qualcosa. Si annoiava.
Ma a che prezzo?
Lui viveva ancora con l’ex compagna — red flag — con una motivazione anche plausibile, legata ai figli — plausibile, ma anche un classico.
Mai tempo per i weekend, ma con Clara andava sempre in vacanza “per tenerla tranquilla” in attesa di sistemare questioni legali.
Guido che di donne ne aveva sempre a centinaia. E diceva — e dice ancora —:
«Io sono così. L’hai sempre saputo. Mi annoio. Devo provare tutto. Sono come te.»
(Red flag.)
«Non sono fatto per la convivenza fissa. Al massimo tre o quattro giorni a settimana.»
(Non so se sia una red flag. È soggettivo.)
Martina ha difeso a spada tratta la propria indipendenza, sostenendolo in questo lungo, lunghissimo anno.
All’inizio tutto era semplice: nessuno chiedeva niente, nessuno prometteva.
Poi è peggiorato. Sempre di più.
«Martina non è mai felice.»
«Martina non si gode i momenti.»
«Martina fa un caso di stato per tutto.»
«Martina l’ha sempre saputo. Se non le va bene, si trovi qualcun altro. Lo dico per lei…»
Ci avevo quasi creduto anch’io. Che fosse Martina, a non dare fiducia alla relazione, per colpa del passato.
Poi, colazione dopo colazione, mese dopo mese, ho capito che no.
Martina stava lottando tra l’amore ossessivo per Guido, la convinzione che non esistesse nessun uomo migliore per lei, e l’annichilimento che uomini come lui portano con sé.
E Martina lo ama. Eccome.
«Ma tu, Mattia, te lo riprenderesti oggi?»
Rompe di nuovo il silenzio, poco dopo che il cameriere ha portato il caffè.
«No.»
La scrittura mi ha resa più asciutta. Con momenti scenici che a volte rasentano il teatrale. Ma che lasciano il tempo di respirare nella consapevolezza.
Poi vedo nei suoi occhi che ha bisogno che io continui:
«No. Non così. Mattia è un narcisista opaco.
Si boicotta da solo. Implode.
Sotto il peso della propria emotività irrisolta.
E io, che aiuto tutti, sono caduta con lui dentro un buco nero da cui nessuno si sarebbe potuto salvare.
Certo non io.
Per cui no, non così. Con la sua situazione personale, che lo tiene incatenato, no.
Forse non dovrei affatto, nemmeno se si salvasse.
Ma questo non posso deciderlo io.
Sono solo andata avanti.
E quando l’ho fatto, davvero, sono rinata.
E mi sta arrivando tutto quello che era stagnante.
Lo sai.»
Giro il cucchiaino nel caffè americano, anche se non ho messo zucchero.
Martina mi guarda. Sembra un cerbiatto impaurito.
Abbassa gli occhi sul suo caffè. Lo beve d’un sorso, con le mani giunte, come una piccola giapponese.
«Lo lascerò.»
Non alza gli occhi.
Le dico solo:
«Se decidi di farlo davvero, fallo per il motivo giusto: perché non va bene per te.
Non perché “lo ha detto Guido”.»
Il cameriere torna a chiederci il tavolo.
Odio Milano, per tutto il tempo che impiego a uscire dal locale.
Ma anche se sono sudata dopo pochi metri, abbraccio Martina.
Come una sorella. Lo è per me.
Mercoledì le scrivo per farle gli auguri.
Mi ringrazia:
«Ho lasciato Guido. Sono al mare. Bello, Porto Venere, ma c’è troppa gente.
Ci andiamo a settembre insieme?»
Sì.
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