Si chiama Monk Mode perché il tema è mettersi in "modalità monacale", ed è l’ennesimo trend nato, però, negli angoli più iperattivi di internet. Il solito paradosso. L’idea è semplice: vivere per un periodo più o meno lungo “come un/a monaco/a”, riducendo al minimo le distrazioni digitali, tagliandosi fuori dai social, stimoli esterni, consumi compulsivi di informazioni che a malapena si riescono a processare.
Emanuela Fanelli e il video esilarante del discorso di apertura per la Mostra del Cinema di VeneziaIn pratica: sveglia presto, focus sulla giornata (lavoro o vacanza, non importa), niente smartphone a portata di mano, niente baldoria, solo disciplina e concentrazione. Che in vacanza significa lettura, giochi enigmistici, quiz, trekking, silenzi e sguardo meditativo verso l'orizzonte. Il culmine di questa modalità si raggiunge riesumando dal cassetto un cellulare anni Novanta, primi Duemila, senza nemmeno lo schermo a colori. Figuramoci una connessione. Che comunque si accende ancora.
Il termine ha attecchito velocemente perché tocca corde profonde della nostra epoca: la saturazione costante di notifiche, la sensazione di non avere mai tempo, la percezione che la vita si stia consumando in un flusso di like e messaggi. Monk mode promette un antidoto: austerità, minimalismo, performance mentale.
Non sorprende che si diffonda soprattutto tra giovani professionisti/e e studenti/esse che sotto le mitragliate di input infiniti, cercano un modo per ritrovare il filo del proprio discorso interiore. Qualunque esso sia.
Le cause del successo del trend sono abbastanza chiare. Da un lato, l’ansia produttiva: se vivi immerso in un ecosistema che ti chiede sempre più efficienza, l’idea di “chiuderti in clausura laica” per diventare iper-focalizzato appare quasi terapeutica, di certo politica. Dall’altro lato, c’è il fascino esotico della parola stessa: invocare il monaco, il distacco ascetico, ha una potenza simbolica che rende il gesto non un semplice detox digitale, ma un atto di disciplina spirituale.
cerchiamo continuamente scuse per mollare lo smartphone
Eppure, qui si apre il cortocircuito politico e culturale. Davvero abbiamo bisogno di un trend per smettere di seguire i trend? Se la disconnessione diventa cool solo quando ha un hashtag, significa che non riusciamo più a legittimare una scelta personale senza un riconoscimento collettivo. In altre parole: è come se non fossimo più in grado di dire “mi stacco dal telefono” senza che TikTok ci dica che è il momento giusto per farlo, senza che si sappia che lo stiamo facendo.
Non è la prima volta. Prima del monk mode c’è stato il digital detox, il dopamine fasting, la slow life, la fuga nei ritiri silenziosi che diventano pacchetti vacanza per manager in burnout. Tutte varianti dello stesso bisogno: scollegarsi. Eppure, la ripetizione stessa di questi trend suggerisce un paradosso. Cerchiamo continuamente scuse socialmente accettabili per abbandonare lo smartphone, come se avessimo paura di farlo senza una narrazione che ci autorizzi.
La verità è che, dietro il costume social, si nasconde una fragilità collettiva: non sappiamo più disconnetterci senza sentirci in colpa o senza avere la cornice del “movimento” a giustificarci. E forse il problema non è tanto l’iperconnessione in sé, quanto il fatto che persino il silenzio deve diventare un prodotto.
Piattaforme e app monetizzano il nostro tempo di presenza, il nostro sguardo, le nostre micro-decisioni. In questo contesto, l’auto-disciplina diventa un dispositivo di difesa individuale. Funziona? A volte sì. È sufficiente? No, perché interviene a valle: cura i sintomi senza toccare l’architettura che li produce.
è sempre una questione di privilegio
C’è poi una questione di classe, di genere, di potere. Chi può permettersi settimane di “monastero” virtuale? Chi ha questo privilegio? Non chi fa turni a chiamata, non chi accudisce figli/e o genitori, non chi vive di piattaforme che pagano a consegna. La narrativa della disciplina personale, sacrosanta sul piano etico, diventa politicamente ambigua quando serve a mascherare la scarsità di tutele collettive: se l’onere di difendere il proprio tempo ricade interamente sull’individuo, lo Stato e le aziende si sfilano con eleganza dal tavolo delle responsabilità.