Nel cosmo esistono oggetti la cui potenza e violenza sfidano la nostra immaginazione, e tra questi spiccano senza dubbio le stelle supermassicce. Un recente studio, che ha coinvolto anche la ricercatrice Kendall Shepherd della SISSA di Trieste, getta nuova luce su un aspetto fondamentale della loro breve e tumultuosa esistenza: i venti stellari. Questi flussi di materia, molto più intensi di quanto si pensasse in precedenza, potrebbero essere la chiave per risolvere alcuni enigmi legati alla formazione dei buchi neri, in particolare quelli che nascono in coppia.
Quando i rilevatori di onde gravitazionali sulla Terra captano il segnale della fusione di due buchi neri massicci, gli scienziati si trovano di fronte a un quesito: come hanno fatto quelle due stelle originarie a sopravvivere come coppia fino a collassare, senza fondersi prematuramente?
I modelli standard, infatti, prevedevano che, espandendosi, le due stelle si sarebbero inevitabilmente unite prima di poter diventare buchi neri. La nuova ricerca propone una soluzione affascinante: venti stellari eccezionalmente potenti. Questi uragani cosmici non solo strappano via gli strati esterni delle stelle, ma possono anche spingere le due componenti di un sistema binario abbastanza lontano da permettere a entrambe di completare il loro ciclo vitale separatamente, per poi rincontrarsi in una danza gravitazionale finale come buchi neri.
La prova a sostegno di questa teoria arriva dall'osservazione diretta di stelle specifiche all'interno della Nebulosa della Tarantola, una regione di intensa formazione stellare nella Grande Nube di Magellano, a circa 160.000 anni luce da noi. Qui si trovano stelle di tipo Wolf-Rayet (WNh), corpi celesti con masse oltre 100 volte quella del nostro Sole, che risultavano essere troppo calde e compatte rispetto a quanto previsto dai modelli tradizionali. I ricercatori hanno capito che, per far coincidere teoria e osservazioni, era necessario "potenziare" la ricetta della perdita di massa nei loro codici di evoluzione stellare. Con venti più forti, i nuovi modelli riescono a spiegare perché queste stelle non si raffreddano: il flusso costante di materia strappa via gli strati più esterni e freddi, mantenendo la superficie incandescente a temperature tra i 40.000 e i 50.000 gradi Celsius.
Queste stelle sono state paragonate a delle vere e proprie "rock star dell'universo": vivono velocemente, bruciando il loro combustibile nucleare in pochi milioni di anni, e muoiono giovani, lasciando dietro di sé un'eredità imponente. La loro fine, con una spettacolare esplosione di supernova, arricchisce l'ambiente circostante di elementi pesanti, come carbonio e ossigeno, mattoni fondamentali per la nascita di nuove stelle, pianeti e, potenzialmente, della vita.
Questa enorme perdita di massa ha anche un'altra conseguenza diretta. Poiché le stelle espellono gran parte della loro materia prima di collassare, i buchi neri che ne risultano sono meno massicci del previsto. Questo aiuta a spiegare la relativa scarsità di buchi neri di massa intermedia, oggetti tra 100 e 10.000 volte la massa del Sole che i modelli precedenti producevano in abbondanza, ma che gli astronomi faticano a trovare.