Ci siamo: per anni abbiamo sognato una specie di Tripadvisor però per maschi e sono anche nati gruppi Facebook in cui le iscritte recensiscono uomini per evitare alle altre esperienze negative. Oggi si parla di Tea, una piattaforma al momento disponibile solo negli States, lanciata nel 2023 e pensata proprio per la sicurezza delle "donne che vivono nel mondo degli appuntamenti”.
Ghosting: vittima o carnefice? La nostra Vox sul datingil consenso per la diffusione di foto che vale sono da un lato
Riservata esclusivamente a donne, Tea permette loro di rilasciare recensioni anonime sugli uomini con cui hanno avuto esperienze di dating. Offre strumenti come segnali “green flag” / “red flag”, salvataggi da catfishing tramite reverse image search (cioè si carica la foto del tipo e compaiono i risultati) e perfino controlli su precedenti penali pubblici. Il tema di fondo è questo: alla vigilia di un appuntamento con qualcuno che non si conosce, gli uomini si domandano "sarà carina come in foto?", le donne se torneranno a casa vive.
Il valore di un'app come questa è immenso, ma, sebbene in teoria sia un servizio di protezione, nella pratica, è una piattaforma di giudizio digitale, spesso non verificabile. Un giudizio che comincia con la diffusione di foto e informazioni personali di una persona senza il consenso della persona in questione. Foto e informazioni che - come ogni contenuto digitale - possono essere rubate, manipolate, diffuse. Infatti a luglio 2025 è emersa, proprio in relazione a questa app, una grave violazione di dati: circa 72mila immagini di utenti sono state rubate e diffuse, tra cui 13mila selfie e documenti di identità.
Il rischio in termini di punibilità penale non tocca l’azienda (protetta da termini di servizio), ma potrebbe colpire le utenti: diffamazione, violazione della privacy, responsabilità individuale in caso di false accuse, stalking.
Violenza normalizzata, femminismo di facciata, fratellanza tossica
Dietro alla facciata della (necessaria) sicurezza si cela una dinamica potente: migliaia di donne che partecipano a un sistema che non ha strumenti per arginare anche forme di vendetta petulante e pubblica. Una violenza simbolica — mascherata da “sorellanza” e femminismo — che sanziona e mette alla berlina gli uomini che nemmeno sanno di essere alla berlina in quell'app. E non possono dire la loro.
Ovviamente gli uomini che sono visti dentro all'app Tea non perdono tempo a scrivere sui forum che è “una miniera di problemi nei termini privacy e discriminazione, con moderazione inefficace, dove una qualunque donna anonima può condividere bugie su di te”. Che è vero. Anche perché nell’app si raccontano storie estreme: accuse di malattie sessualmente trasmissibili, patologie psichiatriche, abusi di sostanze, infedeltà e tutto appunto senza alcun contraddittorio o men che mai prova.
Il pericolo è infatti che queste "giurie" online possano sostituire la giustizia, ignorando la verità, la proporzione e i diritti costituzionali di difesa. Chi ci assicura che le recensioni siano autentiche? Potrebbero essere atti di vendetta o voglia di rivalsa: una ex arrabbiata, una serata andata male, una gelosia repressa che esplode. Non è dichiarata alcuna garanzia o prova dei fatti, evidenze concrete: solo parole.
l'affidabilità dello storytelling anonimo
Quello che è Tea, è un sistema storytelling basato sull’anonimato, dove basta una segnalazione per danneggiare qualcuno dalla reputazione fino al lavoro. E la privacy decade per tutte e tutti, non solo per gli uomini taggati, fotografati e accusati di qualcosa, ma anche per le donne utenti: la fuga di dati lo dimostra. E, più in generale, tutte le app di dating raccolgono quantità aberranti di dati personali (geolocalizzazione, metadati fotografici, preferenze sensibili) da vendere o condividere.
Ora, la normalizzazione della violenza pubblica online – pure quando è mascherata da empowerment femminile o sorellanza – trasforma la cultura del dating in un’arena di reputazioni violabili e relazioni fondate sulla paura. Crea una generale atmosfera di sospetto e ostilità: chiunque, in potenza, può diventare oggetto di giudizio e diffamazione. Perché una cosa è avvertire l'amica, la conoscente, se si appresta a uscire con qualcuno di cui si ha la certezza - certezza - che sia criminale reticente o abuser. Altro è trasformare la propria esperienza negativa in un dato oggettivo, trasformare incomprensioni e antipatie in narcisismo psicopatologico (ora sono tutti narcisisti).
Ciò che una donna può interpretare come uno scherzo, un'altra può interpretarlo come un insulto che oltrepassa i limiti degno di essere diffuso al mondo. Insomma non che non si creda al valore della sorellanza, ma non abbiamo il salame sugli occhi: l'app potrebbe essere usata anche da chi ha motivazioni non proprio altruistiche e limpide per dare in pasto al pubblico gli aspetti negativi - veri o inventati - di qualcuno.
L’esigenza di protezione non è un capriccio: è un fatto
C'è un dato però che inchioda qualunque discussione sul tema: quando un uomo esce con una sconosciuta, si chiede se lei riderà alle sue battute, se avranno gusti compatibili, se la serata si concluderà con un bacio. Quando una donna esce con uno sconosciuto, molto spesso si chiede se tornerà a casa viva.
Questo non è uno slogan da ripostare sui social, ma una tristissima realtà misurabile: le statistiche sui femminicidi e le violenze di genere sono fin troppo note, e non sono certo esagerazioni emotive. Tea nasce — ed è giusto riconoscerlo — da questa esigenza di fondo: dare alle donne uno strumento in più per sentirsi al sicuro, per condividere esperienze ed evitare di incappare in uomini pericolosi, manipolatori, violenti.
È una reazione, se vogliamo, a una lunga tradizione di silenzi e solitudini. Un tentativo, magari goffo, ma comprensibile. Il problema, però, è che dalla necessità di protezione non può nascere una cultura di vendetta, né una piattaforma senza filtri dove chiunque può diventare un colpevole solo perché segnalato. Occorre quindi accettare una doppia verità: la paura delle donne è fondata e deve essere ascoltata. Ma le risposte devono essere serie, sistemiche, legali — non app di recensioni in cui il rischio di abuso è strutturale.
ma la risposta non è un'app di recensioni anonime
Altrimenti, si passa dal diritto di sentirsi al sicuro alla giustificazione di pratiche dannose, giustizialiste, spesso inquinate da soggettività e desideri di rivalsa. Serve uno Stato più attento, un’educazione più consapevole, una rete di protezione vera. Perché sentirsi al sicuro non è un privilegio: è un diritto. Ma dev’essere garantito a tutti, donne e uomini, senza alimentare nuove forme di paura o nuovi tribunali di popolo travestiti da app. Tea, l'app, non è il problema.